mercoledì 5 agosto 2015

La cattiva e la buona disperazione



Ci sono due "disperazioni", per le quali cercherò di dire due parole. 
Una è cattiva, l'altra è buona. Quella cattiva la conosciamo. E' la nera disperazione della mancanza di fede. Smetto di credere all'esistenza di Dio. O almeno, smetto di credere che Dio mi ami e s'interessi di me. “Dio mi ha dimenticato oppure non esiste!” Questa è la disperazione che viene dalla mancanza di fede in Dio, la quale, o lentamente o velocemente, porta anche alla disperazione su me stesso: “Non merito niente, non ho nulla di buono, non ce la faccio a fare nulla, non sopporto nulla. Per questo non vale la pena manco lottare. Alla fine non c'è ragione e senso di vivere.” Vediamo anche la buona disperazione. Si tratta della disperazione circa l'idea che si ha del proprio io. La disperazione sulla grande idea che abbiamo di noi stessi, del nostro io egoista. “Ho smesso di credere che sono onnipotente, sapientissimo. Ho smesso di credere che sono il dio di me stesso.” 

Così facendo ho i migliori presupposti, se io lo voglio, di mettere le basi per la più pura speranza nel vero Dio. I Santi hanno disperato in maniera sana del loro io. Ma cosa significa "disperare in maniera sana del proprio io"?. Di certo non significa che "mi butto dalla terrazza" o ricorro ad altri simili gesti autodistruttivi. Non significa certamente avere una bassa stima o addirittura disprezzo e sfiducia in se stessi. "Dispero sanamente di me stesso" significa: Avanzo nella conoscenza di me stesso. Peso con esattezza e valuto correttamente me stesso. Così facendo smetto di credere alle sedicenti qualità straordinarie personali e
-accetto la mia debolezza umana;
-guardo negli occhi le mie ferite e le mie passioni
-riconosco i miei errori e i miei peccati.

Questa autoconoscenza -frutto della sana disperazione- di sicuro fa 
 male. Non lo nascondiamo, fa male e molto. Sicuro alcuni diranno: "Belle tutte queste cose, ma non sono per noi, ma per i Santi". Questa ricorrente giustificazione è frutto del voler fuggire il dolore. Tale desiderio è figlio della cattiva disperazione la quale ci vuole far arrendere sin dall'inizio. "Non sono né santo, né lo diventerò". Ma nessuno tra i Santi hai mai avuto il coraggio di credersi santo. Al contrario, il pensiero del Santi era ed è, quello che esprime così bene san Silvano dell'Athos: “Tengo il mio spirito agli inferi ma non dispero. So che, per quante ne ho combinate, merito la dannazione, tuttavia non perdo la mia speranza nell'infinita misericordia di Dio. Egli mi salverà.”

Questa disperazione sana è un comandamento di Cristo, essa si 
basa sulle sue Parole: "Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la ritroverà." (Mt 16,25). Perdere la propria vita per Cristo, significa dimenticare il mito di poter essere guida di se stessi, di essere autonomi, autosufficienti, di essere in grado di guarire da soli e comprendere invece di aver bisogno di una guida, dell'aiuto di qualcun'altro, di aver bisogno di qualcuno per guarire e per salvarsi e questo qualcuno è Cristo. Solamente allora l'uomo "trova la sua vita". Solamente allora l'uomo vive le parole del salmo "Il Signore mi pascola e nulla mi manca".

Questa benedetta disperazione viene lodata dall'abbà Isaac il Siro con queste parole: "Niente è più potente di questa disperazione. Nulla può vincere quell'uomo che ha reciso la speranza in se stesso e negli esseri visibili e l'ha trasferita in Dio. Poiché, solamente allora l'uomo sentirà l'amore di Dio in maniera straordinaria, quando si troverà in difficili condizioni che gli precluderanno la speranza nelle cose terrene. Infatti, mai l'uomo potrà conoscere la potenza di Dio quando tutto gli va bene.”.

"Niente è più potente di questa disperazione. Nulla può vincere 
quell'uomo che ha reciso la speranza in se stesso e negli esseri visibili e l'ha trasferita in Dio. Poiché, solamente allora l'uomo sentirà l'amore di Dio in maniera straordinaria, quando si troverà in difficili condizioni che gli precluderanno la speranza nelle cose terrene. Infatti, mai l'uomo potrà conoscere la potenza di Dio quando tutto gli va bene”.

A questo punto vogliamo chiarire alcuni malintesi:
a) non è male che tutto ci vada bene.Né tanto meno dobbiamo cercare e desiderare le prove in maniera masochista. Nella preghiera diciamo "non ci esporre alla tentazione", riferendoci appunto alle prove non desiderate. La cosa cattiva è che, quando tutto ci va bene, facilmente dimentichiamo Dio e in questo modo la nostra fiducia in noi stessi e nei nostri talenti si sviluppano in maniera malata e pericolosa.
b) "Fondo tutta la mia speranza in Cristo" non significa che incrocio le braccia e aspetto che piovano dal cielo le soluzioni ai miei problemi. Al contrario, significa che io utilizzo e valorizzo al massimo i doni e i talenti che Dio mi ha dato (intelligenza, giudizio, volontà, salute fisica, conoscenze, beni materiali e tante altre cose) così da collaborare con Dio per la mia salvezza. "Aiutati che il ciel ti aiuta", dicevano gli Antichi.
Disperazione salutare dalle cose create significa semplicemente che io non assolutizzo e non le rendo autonome dal Dio Creatore e Datore di ogni bene, ma, al contrario, le utilizzo in maniera grata a Dio per la mia salvezza.

Un chiaro esempio di questa disperazione salutare è Zaccheo. A Zaccheo le cose gli andavano proprio bene. Oggi sarebbe stato nella lista dei miliardari. Però, dentro si sentiva vuoto e avvertiva che aveva perso la sua vita. Per questo andò in cerca di Qualcuno che lo aiutasse a ritrovarla. Così per prima cosa ha distrutto la sua "dignità", il suo profilo sociale e poi si è arrampicato su un albero per vedere Cristo. E dopo aver iniziato a credere alle parole: "Il Signore mi pascola e nulla mi manca", si autoassegnò forse la più dura tassazione della storia dell'economia umana. "Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto". Considerato che come capo dei pubblicani aveva bevuto il sangue di molti uomini, è molto certo che dopo questa autotassazione, Zaccheo sarà stato costretto più di qualche volta a cercare cibo nella spazzatura.
Sicuramente vi starete chiedendo: come è possibile che Cristo ha lasciato affamato il convertito Zaccheo? Come è possibile se "il Signore è il mio pastore e io non manco di nulla?".

Si, ma questo non significa che Cristo è venuto nel mondo per 
risolvere, una volta per sempre, il problema della fame. Il "nulla mi manca" non combacia per niente con il "vangelo della prosperità", che annunciano gli americani televangelizzatori protestanti, presentando nei loro programmi quante ville e limousine Cristo ha donato ai neo rinati Cristiani. Questo è contrario alla logica dell'Ortodossia, cioè del Vangelo.

Nel libro del Gerontikon esistono santi asceti che sono morti di fame dopo aver perso la strada nel deserto. Esistono martiri che sono stati condannati a morte per fame. Esistono molti uomini fedeli che sono morti di fame in prigione. E certamente oggi esistono molti nostri fratelli che non hanno perso la loro fiducia e la loro speranza in Dio nonostante vengano meno per la fame o muoiano per mancanza di soldi per le medicine.

Certamente non siamo venuti qui per raccontare favole. Gli attuali tempi non sopportano finte consolazioni. Cerchiamo, invece, di parlare la lingua della verità, la quale a volte può sembrare dura. La stessa lingua ha parlato quell'uomo dolcissimo e pieno di discernimento, san Kosmas d'Etolia, e non in un'epoca di debiti ma di occupazione turca.

"Cosa sopportiamo, fratelli miei? E' triste dirvelo. O oggi o domani sopporteremo grande fame e grande sete. Daremo migliaia di soldi ma non troveremo né pane né acqua. Tuttavia io vi dico: Che prendano pure le vostre cose. Non vi importi. Datele. Non sono vostre. Che brucino pure il vostro corpo, che lo friggano. Quelle cose che nessuno vi potrà mai prendere, a meno che voi non le consegniate, sono due: l'anima e Cristo. Queste due dovete tenere strette perché non accada che le perdiate”.

San Kosmas con realismo incoraggia i poveri e tribolati sudditi cristiani dell'impero Turco, chiamando le cose con il loro nome: "Si, è vero, le prospettive sono tremende. Ma nello stesso tempo, sono e saranno, se voi lo volete, piene di speranza. Dunque la vera vostra ricchezza non è messa in pericolo da niente e da nessuno. Se voi lo volete, sarete permanentemente ricchissimi e sarete per sempre ripieni di Vita Vera. Poiché la vostra ricchezza, che nessuno può togliervi, e la vostra vera vita, che nessuno può prendervi, sono l'anima e Cristo. Queste due cose nemmeno la morte può rubarvele. A meno che voi non le consegniate facendo cattivo uso della vostra libertà".



Questa nostra riflessione si può collegare anche con il Vangelo della nona domenica di Matteo (14:22-34). Anche noi spesso dubitiamo come Pietro, non possedendo quella fede incrollabile sulla parola di Gesù. Specialmente nei momenti in cui la vita va contro i nostri desideri e le nostre volontà, quando si presentano disavventure, problemi, dolori e sofferenze, quando sperimentiamo la Croce. Allora anche noi rischiamo di affondare perché non abbiamo fede, non gridiamo con la preghiera, non ci umiliamo ad accettare fiduciosamente la volontà di Dio senza borbottare ma al contrario ci lamentiamo e addirittura ce la prendiamo con Dio. Perché succede questo? Perché non abbiamo la mentalità del Vangelo che non combacia con la ragione (Pietro inizia ad affondare quando si domanda come è possibile camminare sulle acque) né con la logica del mondo. Per questo abbiamo bisogno di metania, solamente di metania, che in greco non significa semplicemente conversione ma cambiamento, ribaltamento di mentalità. Chiediamo questa a Dio nella preghiera, nella lotta quotidiana, ed Egli, vedendo il nostro impegno, ci aiuterà. Amin.